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- L’innovazione guidata dal design thinking: il mindset progettuale che mette al centro le persone
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Magistretti Stefano
11 Settembre 2025L’innovazione guidata dal design thinking: il mindset progettuale che mette al centro le persone
Sostenibilità & Impatto
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Magistretti Stefano
11 Settembre 2025Sostenibilità & Impatto
In un contesto economico e sociale in continua evoluzione, caratterizzato da accelerazioni tecnologiche e sfide sempre più complesse, l’innovazione non può più essere considerata come un processo lineare o confinato ai soli reparti di ricerca e sviluppo. Oggi, l’innovazione richiede approcci trasversali, inclusivi e capaci di mettere al centro le persone. In questo scenario, il design thinking si afferma come una metodologia – anzi, come una vera e propria cultura – in grado di guidare le organizzazioni nella creazione di soluzioni efficaci, sostenibili e desiderabili. Il suo potenziale si esprime in sinergia con le nuove tecnologie, che abilitano modalità inedite di prototipazione, sperimentazione e coinvolgimento degli stakeholder.
Ma cosa significa davvero design thinking? Qual è la relazione tra questo approccio e le tecnologie emergenti come l’intelligenza artificiale o la realtà aumentata? E come possiamo formare manager e professionisti consapevoli, dotati di un mindset progettuale e critico capace di leggere il contesto e agire di conseguenza?
Per fare chiarezza su questi temi e approfondire il legame tra design thinking, innovazione tecnologica e formazione manageriale, abbiamo intervistato Stefano Magistretti, Direttore del Master in Entrepreneurship and Design for Sustainability di POLIMI Graduate School of Management.
Che cosa si intende per design thinking e perché oggi è così centrale nei processi di innovazione? Quali sono le sue caratteristiche distintive, quali organizzazioni e ambiti professionali coinvolge, e perché rappresenta una leva strategica per affrontare sfide complesse?
Il design thinking più che un metodo è un vero e proprio approccio all’innovazione. Molto spesso si tende a rappresentarlo come un processo fatto di fasi sequenziali, ma in realtà la sua forza risiede proprio nell’atteggiamento mentale che promuove, basato su tre principi fondamentali: centralità della persona, iterazione continua e capacità di prototipare e dare forma all’intangibile. Mettere al centro le persone non significa soltanto focalizzarsi sull’utente finale, ma considerare l’intero ecosistema di individui coinvolti da un’innovazione: stakeholder, team, clienti, società. È un approccio fortemente umano-centrico, “Human-centered design”, capace di cogliere la complessità dei bisogni e delle relazioni. Inoltre, il design thinking è un processo iterativo, non lineare: non esiste un momento preciso in cui si “finisce” una fase per passare alla successiva. È un flusso continuo, dove l’intuizione del progettista ha un ruolo cruciale.
Il terzo elemento distintivo è la prototipazione: saper materializzare un’idea, rendere tangibile l’intangibile, sia in forma fisica che linguistica, per renderla condivisibile, testabile, migliorabile. Questo approccio è diventato sempre più strategico in un mondo che richiede soluzioni rapide, adattabili e profondamente contestualizzate. Non a caso, il design thinking è nato e si è sviluppato nel mondo della consulenza, per poi diffondersi in maniera trasversale in tutti i settori: dal digitale alla sostenibilità, dal manifatturiero ai servizi. È una leva potente perché consente di affrontare problemi complessi, caratterizzati da incertezza e molteplicità di punti di vista, mettendo in campo un pensiero progettuale capace di dare forma al futuro.
Qual è la relazione tra design thinking e innovazione tecnologica? Quali tecnologie oggi abilitano un approccio al design thinking davvero efficace e quali sono i principali impatti che può avere, per esempio, sull’evoluzione di prodotti, servizi e modelli di business?
La relazione tra design thinking e tecnologia è duplice. Da un lato, le tecnologie potenziano il design thinking, rendendolo più rapido ed efficace. Pensiamo all’intelligenza artificiale generativa, che consente di creare in pochi istanti decine di prototipi, layout, user interface o di esplorare alternative concettuali in modo molto più agile. Strumenti come Uizard, ad esempio, permettono di sviluppare interfacce semplicemente scrivendo un testo, offrendo soluzioni visive immediatamente testabili. Questo abilita team di lavoro e designer a confrontarsi con versioni differenti dello stesso concept, facilitando la discussione con stakeholder e clienti.
Un altro esempio emblematico è l’uso dell’AI come “sparring partner”: uno strumento in grado di metterti in crisi, chiedendoti di elencare tutte le ragioni per cui un’idea potrebbe fallire. È un modo per anticipare criticità e migliorare le soluzioni. Anche i big data e i cosiddetti “thick data”, ovvero i dati qualitativi, giocano un ruolo fondamentale nel nutrire la fase di comprensione empatica dell’utente. L’integrazione tra queste fonti permette una visione profonda e articolata dei bisogni reali.
Dall’altro lato, il design thinking può essere applicato per rendere l’innovazione tecnologica più efficace e sostenibile. Troppo spesso le tecnologie vengono implementate senza una reale comprensione dell’ecosistema di utenti: si guarda al front-end ma si trascurano le esigenze del back-end. Un design thinking ben applicato evita questi disallineamenti, permettendo di progettare esperienze fluide per tutti i soggetti coinvolti. Un esempio? Le piattaforme digitali “one platform”, in cui la vista dell’utente e quella del customer service sono perfettamente integrate, evitando quei paradossi in cui il cliente vede un’informazione che il call center non riesce a visualizzare. Questo approccio è oggi indispensabile in ogni settore, non solo nei più “digitali”, ma anche in quelli più tradizionali come il manifatturiero, dove l’interfaccia uomo-macchina diventa cruciale per l’efficacia operativa.
Quali competenze e conoscenze sono ormai imprescindibili in questo ambito? In che modo formare professionisti nel campo del design thinking in maniera efficace e qual è l’approccio e la proposta formativa di POLIMI Graduate School of Management in tal senso?
La formazione in questo ambito non può limitarsi alla teoria. Al contrario, è necessario “fare” design thinking per interiorizzarne realmente i principi. Nei programmi di POLIMI Graduate School of Management, l’approccio è laboratoriale, esperienziale. A fianco delle lezioni teoriche, inseriamo workshop, bootcamp, project work in cui gli studenti lavorano in team su sfide reali, spesso proposte da aziende partner. Questo consente loro di sperimentare concretamente cosa significhi iterare, osservare, comprendere, prototipare. È facendo che si impara, perché – come dicevamo – capire quando passare da una fase all’altra non è qualcosa che si insegna, ma si acquisisce con l’esperienza.
Formiamo manager e professionisti capaci di pensare criticamente e agire progettualmente. Non formiamo designer nel senso estetico del termine, ma persone capaci di affrontare l’innovazione con uno sguardo sistemico, empatico, consapevole. L’obiettivo è sviluppare un mindset, più che un metodo: un atteggiamento che permette di leggere i segnali deboli, interpretare i contesti e agire in modo flessibile e responsabile. Lo facciamo con docenti accademici, ma anche con professionisti e ambassador provenienti dal mondo della consulenza, dell’industria e della trasformazione digitale. Questo connubio tra teoria e pratica è il cuore della nostra proposta formativa.