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Manelli Luca

09 Luglio 2025

Purpose e innovazione: come costruire un futuro digitale vicino alle persone

Innovation & Digital Trasformation

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Manelli Luca

09 Luglio 2025
Purpose e innovazione: come costruire un futuro digitale vicino alle persone

Innovation & Digital Trasformation

In un’epoca segnata da accelerazioni tecnologiche senza precedenti, le imprese si trovano di fronte a sfide complesse ma anche a opportunità straordinarie. La trasformazione digitale, spinta dall’avvento dell’intelligenza artificiale, sta ridisegnando i modelli di business, le modalità operative e le dinamiche del lavoro. Ma in questo scenario di cambiamento, un interrogativo cruciale si impone: qual è il fine ultimo di tale innovazione? È ancora sufficiente perseguire l’efficienza, il profitto, la scalabilità? O è tempo di ridefinire le priorità, mettendo al centro un purpose autentico, capace di orientare l’agire economico e organizzativo verso obiettivi più ampi e sostenibili?

Per approfondire la relazione tra purpose, innovazione, intelligenza artificiale e competenze del futuro, abbiamo intervistato Luca Manelli, Assistant Professor di Strategy and Enterprising Family presso POLIMI Graduate School of Management, dove è anche co-direttore scientifico dell’Osservatorio Family Office e dell’Osservatorio Purpose in Action.

 

Professor Manelli: qual è la relazione tra purpose e innovazione? In che modo il purpose può e deve guidare la trasformazione digitale delle aziende in termini virtuosi, e non solo di business e profitto?

La relazione tra purpose e innovazione è molto più profonda di quanto si possa pensare. In primo luogo, va considerato che la trasformazione digitale è sempre più intrecciata con la transizione sostenibile: parliamo infatti di twin transition, due processi gemelli che richiedono un radicale ripensamento del modello di business, della cultura organizzativa, del mindset e delle capabilities interne. Ed è proprio per questo che risultano così complesse da attuare: trasformazioni di questa portata implicano costi, resistenze e sforzi significativi sia in fase di ideazione che di implementazione.

In questo scenario, ciò che emerge chiaramente dalla ricerca del nostro Osservatorio Purpose in Action è che le imprese purpose-driven – ovvero guidate da uno scopo autentico e condiviso – sono anche quelle più innovative. Non si tratta solo di una correlazione tra purpose e performance finanziarie (che pure esiste), ma soprattutto tra purpose e performance di innovazione. Queste aziende producono più brevetti, generano maggiore capitale intangibile, costruiscono conoscenza in modo più efficace rispetto a quelle che si limitano a un purpose dichiarato ma poco sentito.

Il purpose agisce da forza abilitante perché abbatte i paletti mentali che manager, stakeholder e collaboratori possono avere rispetto al cambiamento tecnologico. Un esempio emblematico è LEGO: se si limitasse a pensare in termini di “ciò che faccio oggi”, vedrebbe nella realtà virtuale una minaccia esistenziale. Ma se si riconnette alla propria aspirazione – ispirare i costruttori di domani – allora anche tecnologie radicalmente diverse possono essere integrate con meno resistenza. Questo consente alle organizzazioni di affrontare l’innovazione in modo meno costoso, non tanto in termini economici quanto in termini di ostacoli culturali e psicologici.

Il purpose può dunque cambiare profondamente il modo in cui si concepisce l’innovazione: non come fine in sé, ma come strumento per realizzare una visione più ampia. Questo vale a livello strategico, ma anche a livello operativo. Nei team di R&D o di product design, focalizzarsi sul ‘perché’ di un prodotto può attivare dinamiche creative inedite. È quello che chiamiamo ‘innovation of meaning’, come suggerisce anche Roberto Verganti: non innovazione puramente tecnologica, ma costruzione di significato. Comprendere cosa rappresenta un prodotto per il consumatore è essenziale per creare innovazione di valore. Anche in questo caso, il purpose si dimostra una chiave di lettura e di azione fondamentale.

 

In uno scenario in cui l’AI ricopre sempre più un ruolo centrale nelle imprese e nel lavoro, in che modo operare per fare in modo che sia messa al servizio di un purpose autentico? È necessario stimolare sin da ora riflessioni sull’uso responsabile dell’AI, allineato a scopi più ampi, e non meramente di processo nelle organizzazioni?

La questione è urgente e complessa. Non ho una risposta definitiva, perché non esiste la ‘palla di cristallo’. Ma credo fermamente che nei prossimi anni un’attenzione autentica agli aspetti di significato del lavoro - da parte di leader e manager - sarà sempre più decisiva. L’interazione uomo-macchina esiste da millenni, ma oggi assume forme completamente nuove con l’intelligenza artificiale, specialmente quella generativa. Il lavoro sarà sempre più trasformato, forse stravolto.

Il rischio è che si perda l’elemento umano del lavoro. Tradizionalmente, l’essere umano ha trovato nel lavoro anche una fonte di significato: non solo nel ruolo o nel titolo, ma nel ‘fare’ in sé, nel costruire competenza, nel fare bene le cose. Essere esperti, riuscire in qualcosa con cura, precisione, professionalità: tutto questo è parte della nostra identità. Se l’AI sostituisce anche gli aspetti più creativi e individuali, potremmo assistere a una perdita progressiva di senso. L’AGI (Artificial General Intelligence) potrebbe amplificare ulteriormente questo scenario.

In questo contesto, il purpose può rappresentare un antidoto. Riscoprire il perché esistono le organizzazioni, il senso profondo dell’agire economico e collettivo, può aiutare a evitare una deriva di anomia, cioè di perdita di riferimenti, significati e motivazioni. Questo vale soprattutto per le nuove generazioni, che cercano coerenza tra valori personali e valori aziendali. I giovani non vogliono lavorare ‘per qualcosa’, ma ‘in qualcosa’ che sia allineato alle proprie aspirazioni. Le imprese che sapranno valorizzare il purpose saranno anche quelle più attrattive per i talenti.

Dobbiamo stimolare ora un uso responsabile dell’AI, che non sia solo orientato al processo o all’efficienza, ma che sia in sintonia con scopi umani più ampi. Se non lo facciamo, rischiamo di diventare tutti un po’ robot - o peggio, di essere sostituiti dai robot - perdendo così la possibilità di costruire identità attraverso il lavoro.

 

In questo contesto, quali competenze ritiene oggi fondamentali? Come formare manager e leader capaci di coniugare purpose, innovazione digitale e uso responsabile dell’AI in modo etico e orientato al futuro? Qual è l’approccio di POLIMI Graduate School of Management in tal senso?

Credo che POLIMI Graduate School of Management rappresenti un punto di riferimento nella formazione proprio perché ha sempre tenuto insieme due anime: da un lato, una forte attenzione alla tecnologia, all’ingegneria, all’innovazione applicata; dall’altro, una profonda sensibilità per l’aspetto umano del lavoro. E per ‘umano’ non intendo qualcosa di retorico o aspirazionale: parlo di relazioni, emozioni, psicologia, mindset. Tutti elementi difficilmente ingegnerizzabili.

Per formare manager e leader del futuro, servono tre tipi di competenze. Le prime sono le hard skill: conoscenza del business, comprensione dei modelli economici e tecnologici. Le seconde sono le competenze trasversali, che aiutano a leggere la complessità e l’incertezza del mondo: capacità di analisi, di visione, di comprensione dei fenomeni sociali, politici ed economici globali. Viviamo in un mondo dove le decisioni di un leader - come l’introduzione di dazi o l’adozione di una nuova tecnologia - possono avere effetti sistemici. Saper leggere il contesto è vitale.

Infine, le competenze soft, e in particolare quelle legate a una leadership autentica. Motivare, supportare, costruire benessere organizzativo: tutto questo sarà sempre più richiesto. Inoltre, penso che dovremo anche riscoprire la connessione tra chi siamo e ciò che facciamo. L’intelligenza artificiale ci allontana da questo legame. Un tempo, un liutaio, un artigiano, conosceva a fondo ogni gesto del suo mestiere. Oggi, rischiamo di perdere questa capability. E se la perdiamo, rischiamo anche che chi prenderà decisioni in futuro non avrà più fatto quel percorso esperienziale che rende davvero competenti. È il paradosso del ‘novizio al comando’. Per evitarlo, dobbiamo coltivare una formazione che non solo insegni a usare l’AI, ma che ci insegni anche a non delegarle tutto, per mantenere la connessione di significato tra l’individuo e il proprio lavoro.

Dello stretto legame tra purpose e innovazione si parlerà anche in occasione di Purpose Day 2025, l’unico evento in Italia interamente dedicato al tema del Purpose, in programma giovedì 16 ottobre 2025, alle 9:30, presso il prestigioso Teatro Lirico Giorgio Gaber di Milano.

Grazie alla prestigiosa collaborazione con la Business School HEC Paris, e in particolare il suo Purpose Center diretto dal Prof. Rodolphe Durand, l’edizione 2025 di Purpose Day ambisce ad affermarsi come un evento di livello europeo e vedrà la partecipazione di speaker di rilievo sia nazionale che internazionale. Tra questi, Paul Polman, ex CEO di Unilever, Francesco Starace, ex CEO di ENEL, e Gary Lubner, ex CEO di Belron.